mercoledì 11 settembre 2013

Da "Il cerchio dei robot" (P.K. Dick)


"Che strano, pensò lui. Una volta, ai tempi in cui la amava, pensava di aver imboccato la strada giusta, di essere stato un buon marito. Adesso, invece, ogni volta che ci pensava finiva per rammaricarsene, soltanto l'idea gli sembrava qualcosa di impensabile. Il tempo e l'intimità, l'assurdità della vita. La guardò allontanarsi e si sentì solo, capì che forse non aveva ancora le risposte. L'importanza delle aspettative... dentro di lui, questo era ancora il modello, il metro di giudizio. Erano divorziati da due anni, ma in quel lasso di tempo non aveva ancora conosciuto nessuna che potesse eguagliarla. Devo frequentarla, penso Jim. Devo starle ancora intorno."
"La musica, con la sua progressione ascendente, l'intensità della sua cupezza e del senso di isolamento che evocava, lo aiutò a schiarirsi le idee. Il peso che gli gravava addosso sembrò trasferirsi alla musica. La grandiosa struttura della musica assorbì quel peso, accettandolo."
"Ah, pensò, respirando quell'aria. La libertà, l'idea di movimento, i camion, le auto. Tutti stavano andando da qualche parte. Tutti erano di passaggio, pensò; non c'era nulla di stabile, lì. Niente di fisso. Poteva essere qualunque cosa volesse. Era questo che la esaltava."
"Mentre guidava, pensò che da un certo punto di vista il mattino presto era il momento migliore della giornata. L'aria era fredda, ma il cielo era luminoso; c'era in giro un odore di buono, le sembrava che tutto fosse più salubre. La nebbia della notte si era diradata e la foschia non era ancora arrivata."

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